PRIGIONIERO
Fra
l’infuriar feroce e lo scosciare
delle Katiusce (1) con
orrendo schianto
quali infiammati bolidi scoppianti,
usciva la “TORINO” dalla valle,
lasciando i morti a mucchi nella neve.
Non so
perché pur io non fui colpito
da una bomba scoppiatami vicino,
che di un cavallo il sangue e le interiora
il viso ed il corpo m’imbrattaron tutto.
Santini
e Labus che così mi vider (2)
quando rientraron,
dissero a mia moglie
che tutto insanguinato m’avevan visto
e che poca speranza c’era ancora
ch’io fossi vivo dopo quella prova.
Alla
mia morte mai ella non volle
credere. Ed infine fu
lui, Padre Pio,
in cui fede e speranza aveva riposto,
a dirle che io certo ero ancor vivo.
Quella
sua fede e quella sua speranza
le diedero la forza di aspettare
per oltre undici anni il mio ritorno.
Quel
giorno la “TORINO”, rotto il cerchio,
aveva ripreso la sua dura marcia,
tra la tormenta gelida e la neve,
la pista seminando ancor di morti.
Salii
su un camion con Ten. Sessa (3)
dell’anticarri, alcuni Bersaglieri
ed un cannone. Dietro la colonna:
verso Tacerkovo si
doveva andare.
Fummo
sorpresi in fondo ad una valletta
e circondati. Ancora combattemmo:
quattro o cinque di noi furono colpiti.
Intanto
il cerchio tutto attorno a noi
s’era serrato; i parabellum contro
di noi puntati, pronti a sparare.
A chi potea la morte mia giovar?
Che
potevamo fare? Ci arrendemmo.
Fu la
fine. Non sapevamo ancora
che la vita da allora saria stata
molto più triste della morte stessa.
“Davai ciassì” (4)
fur le parole udite
prima che
ci prendesser la pistola.
E fummo
tutto svaligiati a oltranza
come da grassator di
grande strada.
Gazze parean, rapaci, che andassero
cose lucenti e belle ricercando.
E non
soltanto queste, anche i guanti
e gli stivali, specie quelli in feltro (5).
Quanti rimaser scalzi sulla neve
a congelarsi i piedi ed a morire!
Più
tardi, nella notte, fui diviso
dai compagni e trasportato via,
lontano, ad un Comando. Non so dove,
volean da me sapere troppe cose.
Rispondere
non volli e fui picchiato;
la prima questa di una lunga serie
di tormenti, sevizie e sputi in faccia.
E sol perché
non rispondevo a quello
a cui l’onor di risponder mi vietava (6).
Di
quella notte gelida ricordo
lo spesso sobbalzar dell’autocarro
che i nostri morti nel suo andar schiacciava.
Mi portaron così oltre del fiume,
quel fiume Don da noi tanto difeso.
Camminando
raggiunsi la colonna
a Boguchar. Nasceva in quella notte
il Santo Bambinello! Qual Natale!
Guidati
dalla Stella i dotti Magi
andavano a portare i loro doni
a quel Bambin segnacolo d’amore.
Da quel
“Davai!” bestiale via cacciati,
noi stanchi andammo per la steppa ignota,
verso un calvario dolorante e greve.
NOTE
(1) = Arma da fuoco che lanciava contemporaneamente 16 bombe
facendo della vere stragi. Fu ad Arbusov che, per la
prima volta, ne facemmo la spaventosa conoscenza.
(2) = il Col. Santini, Comandante dell’81° Reggimento Fanteria venne rimpatriato perché ferito. Il Magg.
Labus, già Comandante del I Battaglione, venne vigliaccamente ucciso
dai partigiani, per poche migliaia di lire nei pressi di Udine, poco tempo dopo
il suo rientro in Italia.
(3) = Della 171^ Compagnia comandata dal Capitano Bergamini, considerato poi “disperso”.
(4) = “Davai ciassì”
= “Dammi l’orologio” = espressione che i soldati russi usavano prima di tutto,
poi cercavano gli anelli, le penne a sfera, quelle stilografiche, i temperini
ed infine gli oggetti di vestiario, in particolare le scarpe.
(5) = I “Valenchi”, stivali completamente
di feltro; l’unico tipo di calzature che impedisce il congelamento anche alle
più basse temperature.
(6) = “L’onore” ? - Mi chiese
un Ufficiale della M.V.D, polizia segreta sovietica. “Ma cosa è questo
onore di cui tutti voi italiani andate sempre blaterando; onore, ma che cosa
è?Si mangia? SI beve? Quanto pesa?Come è fatto? Io
credo solo a quello che vedo, che tocco, quello che ha una forma, una dimensione
….. “.