PS. Alla fine dell'intervista si incrocia un breve
dialogo con la signora Riccardi. Per differenziare il parlato della signora è
stato scritto in corsivo e in grigio mentre il testo del reduce Riccardo
Riccardi è stato scritto in nero a carattere normale.
* * *
Roma 12 febbraio 2007
Si parla del libro
del generale Messe...
È in contatto con altri reduci?
Sì, sono in contatto con Franco Martini che era stato fatto prigioniero nel
campo di concentramento di Susdal.
Lui era della divisione Torino?
Sì. Martini apparteneva alla divisione Torino. Era
stato fatto prigioniero e scrisse anche un libro sui 4
anni passati nei lager, un libro che ho prestato e non ho più riavuto
indietro, purtroppo. Ma mentre l'attendevo stavo
cercando qualcosa riguardante il tenente Aleandri
che era il mio comandante di plotone.
Quindi lei è in contatto con reduci residenti a Roma?
Quelli che conoscevo io sono morti tutti. Quelli che
sono ancora in vita credo non ne vogliono sentir parlare.
Stavo guardando questa edizione del libro di Messe che è del
1948, vede? Si sente ancora lo stantio tra le pagine. Ecco
qui, leggo: “Forza approssimativa della colonna dei prigionieri alle ore 8,00
del 24 dicembre del 1942, circa diecimila uomini, in maggioranza italiani,
appartenenti alle varie divisioni. Fucilazione di ufficiali tedeschi e
di alcuni italiani. Percosse e sputi da parte dei vincitori sia agli
ufficiali che ai soldati, rapina di oggetti
personali. I nostri feriti, che non poterono abbandonare il campo di
battaglia, furono stritolati dai carri armati russi oppure fucilati. Avendo
al mio fianco il tenente colonnello Alfio Battaglia dell'81° fanteria...”
Lei lo conosce Battaglia?
Sì, ma è morto. “... il quale spossato non poteva
continuare oltre la marcia, pregai un soldato di scorta per rifarlo risalire
su un autocarro. Dissi in russo che si trattava di un colonnello, in risposta ebbi il calcio del fucile alla schiena, dopo
qualche istante una raffica di automatico. Era notte,
22,30, e non vidi cadere il mio superiore però, da quel momento, nessuno ha
saputo più nulla." firmato, "sottotenente Giuseppe Aleandri".
Aleandri è morto anche lui e si è fatto 4 anni di prigionia, era il mio comandante di plotone.
Adesso è sepolto a fianco della tomba di mia sorella quindi, quando vado a
fare visita alle sue spoglie, porto anche dei fiori a Giuseppe.
Vi siete frequentati durante gli anni?
Sì, certo. Ci si vedeva anche ai raduni.
I raduni li frequenta ancora?
Sì, beh... quando ci sono, ormai non se ne organizzano quasi più. Ne rimane
soltanto il ricordo.
Quando parto con un'intervista sulle vicende della Russia
mi interessa sempre analizzare la vita del soldato nel clima politico
dell'epoca. Cosa succedeva quando si veniva chiamati
a fare la guerra? Cosa succedeva intorno a lei
intendo dire, intorno a voi. A volte ci sono state delle motivazioni che
hanno spinto ad arruolarsi volontario, magari in virtù di un certo particolare
clima politico.
In verità io sono partito di leva quindi non c'è stata nessuna motivazione
che mi ha portato a partire volontario. Bisogna dire però che c'era un grande
entusiasmo di fondo. Il fascismo aveva galvanizzato
il popolo. I contrasti interni, le situazioni negative, non venivano fuori.
Se ne sapeva poco, non c'era la libertà di stampa per cui le notizie non
circolavano.
Come circolavano le notizie allora?
Quelle che si potevano acquisire dai giornali ma,
per esempio, le notizie come i suicidi, o cose del genere, non venivano
pubblicate. C'era comunque un senso di amor patrio molto forte e radicato. Io
abitavo qui a Roma, nel quartiere San Lorenzo e ogni tanto capitava che,
coloro i quali non aderivano alle disposizioni del regime, venissero... come
dire... “crocchiati” (malmenati) un po'. Ma erano
episodi minimi, cose che succedevano. A volte c'era
il solito strafottente, il “gerarchetto” da parte
fascista che faceva più di quello che avrebbe potuto fare. Ma
dipendeva dai soggetti.
Abitando in un agglomerato di ferrovieri si trovava di tutto. Per esempio,
mio padre era socialista e mi mandava all'opera balilla perché, a San
Lorenzo, dove c'è attualmente la caserma della
pubblica sicurezza, attaccata quasi alla città universitaria, c'era la casa
del balilla. Tant'è vero che il giorno dell'Immacolata (nel 1932, '33 e '34 frequentavo sia la casa del
balilla sia la parrocchia di San Lorenzo) capitò che venne l'Onorevole Ricci,
che comandava a qui tempi l'opera balilla, e ci portò a casa di Mussolini a
villa Torlonia.
E lo avete incontrato?
Certo. Siamo stati insieme a vedere i film di topolino.
Lei quanti anni aveva?
Avevo 12 anni.
Quindi questa esperienza l'ha anche segnata un po'? Incontrare Mussolini, incontrare cioè il "Duce" può aver avuto una certa
influenza sulla sua formazione.
Mah, in effetti, il "Duce" era osannato ovunque quindi un certo
segno lo ha lasciato.
Se andiamo a stringere, se si fa cioè un parametro tra la situazione del
1919, '20, '21 (a parte gli eccessi) e la situazione della storia recente c'è
stato, e tutt'ora c'è - se guardiamo a quello che
succede oggigiorno leggendo sui giornali - un ciclico ripetersi di certe
situazioni. Anche se non si possono paragonare perché si tratta di situazioni
diverse da quelle del passato che stiamo analizzando. Voglio dire che,
ciclicamente, la gente sente l'esigenza del comando di un'unica figura, di
"un" punto di riferimento.
Cioè lei sta dicendo che in un momento in cui si creano delle
contrapposizioni e dei contrasti duri tra parti contrapposte
l'esigenza generale è quella di un riordino attraverso la presa di posizione
di un unico punto di riferimento al comando di un paese?
Se andiamo ad analizzare la storia, per esempio di Hitler, possiamo constatare come lui sia stato eletto democraticamente dal
popolo e non si è imposto come ha fatto Mussolini. Poi è successo quello che
è successo, ma questa è un'altra cosa. Non è che con questo mio dire voglia sentire una nostalgia
per il passato, questo no. Anche perché la guerra poi è stata quella che è
stata.
La mia domanda comunque era mirata a sapere quali sono state le
motivazioni con le quali si cresceva e si andava a
combattere e non mi aspetto che da questo esca fuori il proprio credo
politico.
Bisogna dire che comunque non c'erano alternative. Le
scelte erano fondamentalmente due: o si andava in parrocchia o si diventava
dei balilla. Oppure si assisteva a un travaso: la mattina era dedicata da una
parte e il pomeriggio dall'altra. Che era poi quello che succedeva a San
Lorenzo dove abitavo. Però, come ripeto, facendo un
parametro tra la vita di oggi e la vita di allora... prima camminavamo con le
toppe al sedere mentre oggi è cambiato un po' tutto.
Alla luce dei fatti che ha raccontato, questo clima così
"indirizzato" ha in qualche modo contribuito a fidarsi di quello
che stava succedendo o che sarebbe successo di lì a
poco?
Mah no! Prima c'era il caos, poi è venuto l'ordine.
Quindi era un processo positivo dal suo punto di vista.
É logico. Non è che fossimo ubriacati dal fascismo.
Cioè vedevate che quella situazione vi portava a un miglioramento?
Certo, d'altra parte... Quando una quindicina, una
ventina di anni fa, fu organizzata la mostra al Colosseo sull'industria del
periodo fascista, sentivo i commenti delle persone vicine stupirsi e
commentare quello che era in mostra dicendo “ma come, a quei tempi c'era
questo, a quei tempi c'era quest'altro?”. Se pensa ai treni, oggi come oggi,
siamo lì: gli orari di allora, sono gli orari di
oggi. Dei sindacati ce n'era uno solo e funzionava, adesso invece a seconda di dove tu vai cambiano le cose. Gli ospedali
funzionavano e non c'erano questi scandali perché sapevano che c'erano certe
posizioni, c'era la certezza della pena, a parte quelli che erano condannati
per antifascismo. Se poi vogliamo fare dell'ironia nel rileggere la storia,
stavano meglio quelli che stavano dentro piuttosto
di quelli che stavano fuori.
Noi italiani siamo ancora rimasti alla "guerra tra i guelfi e i
ghibellini", questa è la nostra mentalità. Io sono stato in Germania ma
nessuno parla di Hitler, la Germania è stata messa in condizione di
ripartire. Io ero prigioniero degli inglesi, Cercil
aveva vinto la guerra ma quando hanno fatto le elezioni gli
inglesi se lo sono tolto dalle scatole. Mentre noi abbiamo il perpetuarsi
delle "storie".
Ma forse perché certe cose non sono state risolte, non sono state chiarite
affondo.
Non le hanno volute chiarire. C'è un fatto: quando uno prende
il posto di un altro, anche in un ufficio, c'è sempre la tendenza a dire che
quello prima di te era un buon a nulla, non ha fatto quello che io avrei
fatto. Quando io presi la direzione dell'azienda delle cooperative, a
Cerveteri, si aspettavano tutti che io sparassi a zero sul mio predecessore.
Io invece difesi quello che era stato da me sostituito. Perché bisogna avere
la coscienza di riconoscere anche nell'avversario quello che ha fatto di
buono e quello che ha fatto di male. D'altra parte certi risultati non
nascono dall'oggi al domani. Le cose che succedono qui da noi non mi pare
succedano nelle altre democrazie. Sostanzialmente quello che voglio dire è
che il fascismo è stato un periodo, che ormai è finito. Ma l'Italia, oggi
come oggi, ha usufruito delle iniziative buone che il fascismo ha fatto, la
guerra è stato lo sbaglio più grosso, non dovevamo
assolutamente farla.
Tornando quindi al discorso iniziale, come apprendeste l'annuncio della
guerra? Cominciava a serpeggiare nell'aria una partecipazione al conflitto in
atto?
È evidente, lei pensa che un domani non possa succedere ancora? Magari nei
Balcani? La Russia sta riarmando l'orso. Ecco!
Ma fermandoci a quel periodo storico come apprendeste quell'annuncio?
Noi eravamo sotto le armi quindi abbiamo semplicemente obbedito agli ordini
di “sua maestà”.
Quello che mi interessa sapere però è il punto
di vista di un ragazzo di quell'epoca. Se oggi dovesse succedere ancora non credo che i giovani si tirerebbero indietro di
fronte a un pericolo reale. Quello che vorrei indagare però è se c'era la
paura tra i giovani.
Il ragazzo del 1940, non è che la prendesse con
entusiasmo, ma era cresciuto con un altro spirito per cui era un processo
quasi naturale. Quelli che avevano già combattuto la guerra, in Abissinia e
in Spagna, avevano un'esatta visione di quello che poteva essere la guerra. Praticamente non la accettavano intimamente. Tant'è vero
che quando andai a salutare mio zio allo scalo merci
gli dissi “sai zio, non faremo in tempo ad arrivare a Vienna che la guerra
sarà già finita”. Per capire questo bisognava leggere quello che si scriveva
sui giornali, delle avanzate strepitose in Russia da
parte di tedeschi: seimila apparecchi bruciati al suolo; 140-150 divisioni
schierate all'attacco. Noi pensavamo che non ci fossero dubbi sulla
risoluzione a breve termine. Purtroppo gli uomini
non fanno mai tesoro degli errori altrui. Se Hitler avesse letto la campagna
in Russia di Napoleone ci avrebbe pensato due volte.
Quando noi ci siamo ritrovati in Russia, avevamo davanti un
territorio così esteso che sembra di stare in mezzo a un mare dove la mattina
si vede sorgere il sole e al sera lo si vede tramontare.
Quando apprende che sarebbe partito per la Russia?
Io personalmente fui chiamato l'8 gennaio del 1941, sotto le armi. Mi
presentai al reggimento, all'81° reggimento fanteria, che era a Via Legnano, l'attuale via del generale Dalla Chiesa,
dove fui inquadrato come giovane fante. Tre mesi dopo, a marzo, il reggimento
partì per la Jugoslavia mentre noi giovani fanti non partimmo e rimanemmo in
Italia.
Cosa facevate qui?
Facevamo addestramento, i giovani facevano quello: tiri, marce ecc. Ritornato
il reggimento, nei primi di giugno del 1941, il 21
dello stesso mese, Hitler dichiarò guerra alla Russia (in verità Hitler
invase semplicemente la Russia ndr.). “Radio fante”, un modo di dire per
definire le notizie che provenivano dal comando di reggimento e che venivano propagate dalla truppa...
“Radio fante” come “radio scarpa”.
Sì certo, è lo stesso. Dicevo, da “radio fante” era partita la notizia che
appunto, si diceva, saremmo partiti per la Russia. Il 5 luglio del 1941
quindi, ai Parioli (al quartiere Parioli di Roma), all'altezza più o meno del Villaggio Olimpico, fummo “passati in
rivista” da Mussolini noi fanti dell'81°, dell'82° e del 52°. Su questo
episodio fecero anche una registrazione che ogni tanto mandano
in onda. Nel suo discorso, Mussolini, ci disse che avremmo avuto l'alto onore
di partecipare, di combattere eccetera, eccetera. Le
solite parole di retorica. Mussolini era accompagnato
da Von Rintlen, addetto militare tedesco in Italia,
e dal solito codazzo.
Eravate tutti reggimenti della divisione Torino?
Sì, l'81°, l'82° e il 52°. Erano reggimenti
inquadrati nella divisione di fanteria Torino facente
parte del Csir, Corpo di Spedizione Italiano in
Russia, composto dalla Pasubio, dalla Torino e dalla Celere.
La rivista avveniva a scaglioni separati?
Mussolini era già stato nel nord Italia, mi pare a
Brescia, e aveva passato in rivista la Pasubio e la Celere.
In quei momenti la paura della guerra la sentiva?
No, no.
Immagino che i timori che si avvertivano quando si era soli, in verità,
quando si era in gruppo, potevano essere condivisi e, in un certo senso,
anche superati. È stato così per lei?
No, aspetti un momento.
Si assenta e poi
ritorna con una foto...
Questo è lei?
Sì, una foto con con papà,
prima di partire. Le leggo questo passo dal mio diario:
“Arrivò la domenica del 22 giugno e mentre papà si preparava per uscire
sentimmo per radio la dichiarazione di guerra da parte della Germani e
dell'Italia. Ci guardammo perplessi con mio padre pensando...”.
Da quello che si legge dalla storia però, Hitler non ha dichiarato guerra
alla Russia l'ha semplicemente invasa.
No, ci sono stati scambi di dichiarazioni. “... a quello
che sarebbe successo in un prossimo futuro. Intanto la vita della
caserma andava avanti, “radio fante” cominciava a farsi sentire circa un
nostro intervento. La conferma ufficiale venne verso il 10 luglio quando
tutta la divisione Torino, composta dall'81°
reggimento fanteria, dall'82° e 52° artiglieria, fu passata in rivista al
campo Parioli dove adesso c'è il villaggio olimpico. Ci disse (Mussolini) che
avremmo avuto l'alto onore di andare in Russia per rinverdire gli allori delle nostre bandiere. Quella volta il
"soldo" per il soldato fu passato, per
quella giornata, da una lira a cinque lire. Intanto i bollettini che
provenivano dal fronte...”
Cosa si comprava con 5 lire?
Con 2 lire (circa 13 euro di oggi ndr.) a quei tempi
si acquistava un fiasco di vino, con 15 centesimi (circa un euro di oggi ndr.) si prendeva il tram. Si campava in qualche modo, era una bella sommetta
per la giornata. Il cinema per esempio: al Supercinema erano 3, 4 lire (tra i 20 e i 25 euro ndr.), al Teatro Italia, qui dietro, si pagava 50 centesimi (circa 3,30 euro ndr.) e vedevo due film. Un paio di scarpe 15-16 lire (105 euro circa ndr.), un vestito 60, 70 lire (tra i 400 e i
500 euro ndr.). “... la sera del 16
andai a salutare gli zii allo scalo San Lorenzo, mio zio mi disse che la
guerra era una cosa seria. Lui ricordava la prima guerra. […]
La vita nel treno scorreva, chi leggeva, chi, come me, stava al finestrino
osservando la compagna, mentre un pensiero mi tormentava. Michele, mio
cugino, era in Grecia mentre Amerigo era in Nord Africa.
Gli zii furono tanto cari con me così come pure le cugine Maria Rosa e Wanda.
Lasciai la casa fischiettando la marcia del reggimento, salutando gli
inquilini della scala 11 che mi avevano conosciuto
fin da bambino”.
Si evince quindi una buona serenità, in quel fischiettio si portava
dietro l'Italia.
Beh, avevo 19 anni. “... il giorno del 17 luglio,
alle ore 16,00, dopo l'omaggio al monumento dei caduti nei pressi del cortile
della caserma, ... ” Credo di essere stato l'unico a
volere una targa che ricordasse la partenza del mio reggimento in quei posti.
“... dopo gli onori alla bandiera che saliva in treno prendemmo
il posto nel nostro vagone...”
In quale stazione di Roma avviene tutto questo?
A Roma Ostiense. “... ci fermammo alla stazione Tiburtina
dove c'era il raduno per salutare i partenti. Mamma era rimasta a
casa. La scena fu molto commovente, Elena piangeva molto mentre papà mi
strinse al suo cuore dicendomi “che il Signore ti accompagni e i santi
martiri ti proteggano: Nicandro Marciano e Daria.”.
Papà era molto devoto, come lo sono io, ai santi di Venafro (cittadina nel
Molise), a sud di Cassino. “...Diverse sere prima
della partenza per il fronte Russo, papà mi donò una bottiglietta contenente
la santa manna (liquido che scaturisce dalla tomba dei santi martiri
venafrani in casi eccezionali) e un pezzettino di pietra della tomba, affinché
la portassi in guerra. La bottiglietta la misi nel taschino
sinistro della giacca militare mentre la scheggia di roccia [...]” l'ho
ancora nel portafoglio! “... il macchinista del
treno fece fischiare il locomotore per tre volte, il treno si mosse lentamente
e, piano piano, scomparvero i volti delle care
persone che mi avevano accompagnato. Nel vagone, per un certo momento,
ci fu silenzio, poi la vita della compagnia riprese il solito tram tram. Ci fermammo a Bologna
...” ecc. ecc.
Ci sono stati degli attimi di tristezza?
“... ai confini del Brennero ci fu un momento di commozione quando lasciammo
il caro suolo della patria...”, ecco, e poi “... Ero sempre con il pensiero rivolto al momento della
partenza dalla stazione Tiburtina e mi rivedo, istante per istante, il caro
zio Temistocle che, come capo del personale viaggiante della stazione, era
molto indaffarato. Venne a salutarmi, baciandomi con i suoi baffi alla Stalin...” Era un socialista lui “... li
sentivo irti come spazzolini sulla pelle del mio viso. In Ungheria i
capi stazione, impettiti, salutavano sull'attenti. […]
Intanto in direzione contraria incontrammo un treno ospedale tedesco pieno di
feriti che giungevano dalla Moldavia. Quello fu il primo shock che provammo e
l'entusiasmo cominciò a calare.”
Fino ad allora aleggiava un certo entusiasmo.
Noi dicevamo che non avemmo fatto in tempo a partire che la guerra sarebbe
già finita. Daltronde se si ritorna indietro ai
tempi, la Germania aveva piegato la Francia, aveva quasi “sderenato”
l'Inghilterra con Duncherque. Poi, passando al
fronte orientale, in una settimana era successo quello che era successo con 2000-3000 carri armati. Daltronde
ci sono le fotografie che lo dimostrano: io con la mia divisione abbiamo fatto 2450 chilometri a piedi dalle falde dei Carpazi fino
al Don, i camion li abbiamo presi nel mese di agosto a Uman
ma si trattava di pochissimi chilometri, 5 o 6 chilometri per raggiungere
Mussolini e Hitler che erano venuti in visita e ci stavano aspettando, di lì
a poco ci avrebbero passato in rivista.
Nel libro di Messe, La guerra al fronte Russo, è riportato questo
episodio, a dire il vero anche un po' curioso: Mussolini e Hitler erano arrivati per omaggiare tutto il Csir
ma, dal momento che le divisioni Pasubio e Celere erano ormai in posizione
piuttosto avanzata, fu deciso dai comandi di raccogliere, come rappresentanti
del corpo d'armata italiano, i soldati della Torino che, appiedati, si
trovavano nei pressi e quindi facilmente autotrasportati per raggiungere in
fretta il luogo in cui si sarebbe svolta la "sfilata". In quella occasione quindi c'era anche lei?
Sì, appena i capi se ne andarono ci portarono ai posti di partenza, nel luogo
in cui eravamo stati prelevati. Zaino in spalla e ricominciammo
la marcia a piedi. A proposito del marciare e dell'essere trasportati, in
verità i tedeschi non riuscivano a capire cosa volesse dire esattamente
essere “autotrasportati”.
Torniamo un attimo indietro. Voi passate il Brennero, poi cosa succede?
Arriviamo a Borsa, in Romania, e oltrepassiamo i Carpazi. Con i camion facemmo circa 230 chilometri attraversando il passo, se
non erro era del Pripet.
Si cerca un
riferimento sulla mappa, una copia di quella stampata dallo Sme
Vede? La Torino è
partita da Roma e arrivammo a Borsa dopo 2375 chilometri di tradotta.
Raggiungemmo poi Felticeni e da lì, a piedi, ci
dirigemmo verso Suceava e Botosani.
Dicevamo che il vostro morale si era incrinato in occasione dell'incrocio
del vostro treno con la tradotta-ospedale tedesca. Ma
poi ricomincia la vita di sempre sul treno. Puoi spiegarmi, in maniera molto
pratica, come eravate sistemati?
Eravamo sui sedili di terza classe, quelli in legno.
Non tutti raccontano di una sistemazione così confortevole.
I carri bestiame non li avevano quando siamo partiti, li adoperammo quando
ritornammo, su quelli c'erano dei pagliericci, ma si immagini
cosa poteva essere il ritorno sistemati in quel modo.
Quindi all'andata eravate sistemati decentemente.
Beh, era come se dovessimo andare da Roma a Parigi in treno. All'andata, era
in agosto, non avevamo la stufa ma al ritorno eravamo forniti anche di
quelle. Arrivati a Felticeni la divisione
si organizzò e iniziò la marcia verso il fronte. Eravamo
undicimila soldati, ovviamente dislocati nei vari paesini. A Botosani fummo passati in rivista dal generale Messe, che
sostituì il generale Zingales
a Vienna. Lì, fece rapporto agli ufficiali e ci disse che, purtroppo, la
guerra in Russia non era quella che si leggeva nei giornali. Persino Hitler
scrisse a Mussolini dicendo che non si aspettava una resistenza così tenace.
L'enorme susseguirsi dei carri armati, che i tedeschi puntualmente
abbattevano, carri armati di 52 tonnellate con una corazza di sette
centimetri, mettevano in difficoltà le artiglierie
dell'asse. Il famoso cannone 88 tedesco per esempio,
che serviva da controcarro, riusciva a malapena ad arrestarlo, ci si può
immaginare le difficoltà della nostra artiglieria che aveva dei pezzi
risalenti alla prima guerra mondiale.
Quali cannoni avevate in dotazione?
Mi pare il 75/27, mentre
il corpo d'armata aveva i 149 a canna lunga e, inoltre, avevano già
distribuito i nuovi cannoni di artiglieria (in dotazione all'Armir), ma io non sono un esperto di artiglieria.
Comunque al nostro arrivo capimmo che non sarebbe stata una cosa allegra, i
russi si battevano strenuamente.
D'altronde avevate invaso il loro territorio.
Della Russia, in verità, si sapeva dei malcontenti
interni e si sperava in una rivoluzione che, in verità, non c'è stata. In
Ucraina, per esempio, venimmo accolti come dei
liberatori. Ma questo forse dipendeva dal fatto che
il comportamento degli italiani, in quei posti, nei confronti della
popolazione civile, è stato sempre molto umanitario.
Ma questo essere benevoli verso la popolazione
era impartito ai soldati italiani dai comandi o era un comportamento che
nasceva spontaneamente dai singoli soldati?
I comandi venivano anche dall'alto, ci veniva detto
di trattare umanamente la popolazione, anche perché le notizie che
trapelavano erano che i tedeschi li trattassero in maniera rude. Questo ci
indispettiva un po'. Questa situazione portò, in seguito, la popolazione
ucraina ad appoggiare il movimento dei partigiani contro i tedeschi. I
tedeschi avevano trattato la popolazione in maniera arrogante, ci furono
situazioni molto tragiche che portò quella
popolazione a pensare che tra i due mali sarebbe stato meglio tenersi quello
di casa propria, cioè quello russo.
I primi combattimenti quando sono avvenuti?
Li avemmo sul Dnieper, presso Dniepropetrowsky,
divisa in due da questo fiume che aveva ormai straripato a causa della mano
dei russi che avevano fatto saltare le dighe di Kremencium.
Il fiume, in quelle zone, era largo quasi un chilometro e mezzo. Noi che eravamo
abituati ai settecento metri massimi del Po' e al Tevere (per noi che eravamo
di Roma) ci sembrò un fiume infinito. Quello che ci impressionò fu che, non
ricordo se fosse il 23 o il 24 settembre 1941, i
nostri ufficiali, attraverso i cannocchiali, videro che vi erano dei carri
armati al di là del fiume che sostavano sulla riva opposta del Dnieper. Inizialmente pensarono a un sabotaggio, avendo
visto che i carri entravano nell'acqua, ma quelli arrivarono in mezzo al
fiume e cominciarono a sparare verso le nostre postazioni, erano in verità
carri armati anfibi che poi riuscirono fuori e si allontanarono. Ogni tanto
ci si presentavano novità di questo genere. La cavalleria cosacca, per
esempio, aveva le maschere antigas per i cavalli.
Voi avevate armi di quel genere?
Noi soldati avevamo la nostra maschera ma non eravamo forniti di armi di quel
genere. Anche l'armamento era diverso da quello russo, il nostro fucile era
il modello '91, quando ti feriva ti faceva un
buchetto piccolo. Loro quando sparavano il buco che restava era certamente più grande, erano anche abbastanza
esplosivi. I loro fucili erano a tiro rapido, quando terminava
la scarica faceva “tram, tram, boom”. Avevano i Tomphson inglesi che vedevamo nei film americani di con James Cagney.
Quindi il confronto era impari.
Nel modo più assoluto. Quando noi camminavamo
venivamo avvolti da nubi di polvere alzata dai mezzi che portavano i loro
rifornimenti per il fronte che era lontanissimo, questo dimostra la quantità
di mezzi in movimento..
Eravamo rimasti a Dniepropetrowsky.
Da Dniepropetrowsky noi dovevamo recarci a dare il
cambio alla "divisione SS Viking" tedesca. I tedeschi avevano una
testa di ponte sull'altra parte del fiume intorno alla quale c'erano un centinaio di batterie russe di artiglieria. A Dniepropetrowsky pare ci fosse, anche se io non ho potuto
constatarlo direttamente, la scuola di artiglieria
russa. Quindi in effetti ogni angolo della strada
poteva essere coperto dalle loro artiglierie. La sostituzione della SS
Viking, da parte delle nostre divisioni, doveva servire ad abbattere queste
postazioni di artiglieria che avevano decimato la divisione tedesca che, tra
morti e feriti, aveva perso circa diecimila soldati. Noi della Pasubio, della
Torino e della Celere facemmo questa azione e catturammo
circa diecimila soldati russi. Quella fu una battaglia molto cruenta. In
quella circostanza venni mandato a sistemare un filo
telefonico ma, dal momento che ero uno che si dava sempre da fare, il tenente
Aleandri pensò bene di tenermi con lui. Al mio
posto andò un altro ufficiale che però morì proprio in quella circostanza. Da
lì marciammo verso Stalino, sempre a piedi. Quello
fu un periodo molto tragico perché cominciavano le piogge e non è che noi camminassimo su strade asfaltate, anche le
piste battute, con la pioggia, non esistevano più. Il fango che si attaccava
agli scarponi diventava un peso insopportabile, considerando che bisognava
tirarsi dietro anche lo zaino e il fucile. Le fasce sui pantaloni si
scioglievano e ci costringevano a lasciare lo zaino per risistemarle e
ricominciare la marcia.
Il 28 ottobre 1941 arrivammo a Stalino. Intanto
cominciava il freddo e i primi campi minati. I russi distruggevano tutto. I
pozzi erano avvelenati: ci trovavamo dentro gli animali per cui non potevamo
attingere acqua. I rifornimenti per bere ci arrivavano da due, trecento
chilometri di distanza, stiamo parlando di una borraccia d'acqua, non di
abbondante rifornimento. Non tutti i pozzi erano avvelenati ma era comunque
un ulteriore impedimento ad un'avanzata non certo
agevole. Lungo la strada c'erano tanti trabocchetti: mine, inserite persino
in bottiglie alle quali davi un calcio per spostarle e scoppiavano. È stata
dura! Dura, dura, dura... Poi arrivò il freddo,
verso novembre 1941. A 20, 25, 30 gradi sotto zero
ricominciarono i duri combattimenti: Nowo Orlowka, Gorlowka, Rikowo. Riuscimmo sempre a fronteggiare i russi e a
ricacciarli indietro.
Avevate l'impressione che loro indietreggiassero strategicamente o voi
eravate talmente abili e talmente forti da costringerli alla ritirata così
costantemente?
No, loro hanno adottato la tecnica della campagna napoleonica. Il loro scopo
era quello di allontanarci dalla basi di partenza.
Era una guerra fatta a sacche non una guerra come ce la saremmo
potuti immaginare noi soldati. Loro facevano una guerra mobile la siuazione era
generalmente questa: se c'era una divisione, loro, con le truppe corazzate,
la circondavano e la distruggevano. Chi riusciva a scappare veniva finito dalle fanterie che mano mano
avanzavano concentricamente per rastrellare queste sacche. Sul Don invece
adottavano un'altra tecnica: quando si facevano le pattuglie per ricacciare i
russi dall'altra parte del fiume, l'artiglieria ci sparava alle spalle perché
sapeva che, a quel punto, avremmo dovuto ritornare
nelle nostre posizioni. Arrivati a Rikowo
svernammo fino a luglio del 1942.
Un periodo di sei mesi circa che possiamo considerare di
"riposo"?
Sì, chiamiamolo riposo. Rispetto a quello che avevamo affrontato prima poteva considerarsi riposo ma in realtà, di tanto in
tanto, c'erano degli scontri di pattuglia. Meno 40
gradi di freddo, o 5 giorni ininterrotti di neve colpiva noi come pure loro
quindi, se eravamo fermi noi lo erano anche loro. A riguardo del freddo la
popolazione civile, che era alle nostre spalle, ci diceva che saremmo morti
tutti di freddo. Invece noi resistemmo e andammo avanti. Il 29 luglio del 1942, cominciò la seconda offensiva.
Intanto dall'Italia arrivavano dei rinforzi. Voi avevate contatto con
questi nuovi complementi?
Sì, ma quelli venivano in sostituzione dei morti e dei feriti o dei
congelati. Ed era gente giovane che aveva già perso quell'entusiasmo con il
quale eravamo partiti noi. Ormai la guerra aveva preso un'altra piega
rispetto alle aspettative iniziali. Io un giorno
dissi a uno di questi, con molto garbo: “beh, beati
voi ve ne venite dall'Italia...”. Lui si scoprì gli indumenti e mi mostrò una
cicatrice e mi disse “vedì?,
Io ho già fatto l'Albania e adesso sono qui”. A quel punto ci abbracciammo in
maniera commossa e pensammo “pazienza!”. C'era anche chi, pur essendo vecchio
per fare la guerra, veniva al fronte per non stare in prigione. Ma lui era talmente anziano che lo tenevamo da parte.
Com'erano i rapporti con la popolazione?
Ottimi!
Dormivate spesso nelle case dei residenti?
Sì, nell'avanzata sì. Noi eravamo accolti con molta ospitalità “Italiansky karasciò” (gli
italiani sono bravi ndr.) dicevano. Come dicono gli
inglesi, tra gli italiani e la popolazione russa c'era un certo “feeling” un
sentimento che nasceva spontaneamente. C'erano persino soldati che mietevano
il grano insieme alla popolazione locale.
Perché non c'era diffidenza tra voi e loro?
Perché c'eravamo guadagnati sul campo la loro
fiducia. Persino i partigiani ci lasciavano stare.
Ne avevate incontrati di partigiani?
Sì, addirittura ci aiutavano. Mi capitò il 6 gennaio 1942. Quel giorno mi incaricarono, con l'aiuto di un ucraino, di andare a
prendere le slitte per i feriti. Lo starosta, il
podestà, gli aveva detto di accompagnarmi. Camminammo a lungo, io tentai di
parlargli ma ero un po' sospettoso per via della faccia burbera che aveva.
Ero dubbioso per il fatto che non mi rispondeva e
pensavo fosse un furbo. Invece era una persona tranquillissima e buona. Nel
tragitto gli avevo detto che mi ero rotto le scatole della guerra, che non ne
potevo più. Lui, da ucraino, ce l'aveva con Stalin:
essendo ucraino non sopportava la dominazione russa. Cercai di accorciare le
distanze condividendo l'avversione per le rispettive dittature. A un certo
punto, entrammo in un capannone dove c'erano una
quarantina di uomini. È possibile che fossero dei partigiani, anche se erano
persone anziane, in linea di massima. Il mio accompagnatore comunicò con loro
e, uscendo fuori dall'edificio, ci diedero le
slitte.
Dicevamo che eravate rimasti fermi a Rikowo per
un po' di mesi.
Rimanemmo a Rikowo da novembre del '41 a quasi
tutto luglio del '42. Io ero stato distaccato dalla compagnia e mi occupavo
della segnalazione dei morti. Fui aggregato al comando di reggimento ed ero l'addetto
alle segnalazioni da inviare al Ministero delle Guerra per riferire dei caudti. In più, avevo la gestione del cimitero di Rikowo. Questo comportava che, quando i soldati mi
vedevano, facevano gesti scaramantici. Spesse volte
andavo al cimitero per controllare il numero della tomba.
Aveva questo ruolo organizzativo per il fatto che
aveva studiato?
Io ero caporale. In verità non avevo conseguito il diploma ma loro sapevano
che avevo studiato. Avevo fatto 4 anni di ragioneria
ma non avevo completato gli studi. Modestamente avevo fatto il mio dovere.
Tutta la documentazione riguardante i morti la custodiva lei o veniva inviata ad altri uffici che se ne occupavano?
Eravamo in un ufficio con il tenente Cardarello che
inviava ufficialmente la comunicazione agli uffici di competenza per la
comunicazione ai parenti.
Quando avete lasciato Rikowo questa
documentazione che fine ha fatto?
Ritengo che sia stata spedita agli organi di competenza.
Il comando era sempre in retroguardia?
A un chilometro dalla linea del fronte. Le linee in verità erano capisaldi.
Generalmente di tende a pensare, erroneamente, a una guerra di trincea ma noi
combattevamo una guerra di movimento. Ci si trovava ad avanzare senza nemmeno
accorgersi, magari si erano percorsi cento
chilometri senza nemmeno rendersene conto. Sul Don avevamo uno schieramento
di 300 chilometri, questo significava che ogni reggimento aveva uno
schieramento da contenere di una trentina di chilometri. Dietro di noi non
c'era nulla e nulla era più controllabile anche per il
fatto che c'erano enormi distanze. Si trattava di una
guerra moderna di movimento. Per farle avere un'idea: quando nevicava, e
nevicava per 5 giorni di fila, e si usciva fuori,
magari da un'isba o da una scuola, dove noi eravamo, ci si trovava 5 metri di
neve. Ora, cosa si può fare con una montagna di neve così dappertutto che
impedisce ogni movimento? Quale preoccupazione dovevamo avere? Nessuna.
Quindi nel periodo di permanenza a Rikowo la gente continuava a vivere relativamente
normalmente?
Gli abitanti uscivano per andare a trovare il mangiare.
Per voi invece? Il mangiare arrivava?
Sì, certo era tutto organizzato. Anche i battaglioni che erano in linea e che
erano nei capisaldi avevano il loro rifornimento. Quindi
non è mai mancato il mangiare o qualsiasi altro rifornimento. E a proposito
delle scarpe che avevamo in dotazione, secondo cui erano cartone, non è affatto vero.
Mi sfati questo mito allora. Io credo di aver visto certe suole di scarpe
simili a quelle che si usavano allora e che alcuni reduci hanno descritto e
che quindi, realisticamente, voi potevate avere in dotazione. In effetti, a
vedere questo tipo di scarponi, la suola non era di cuoio ma di una specie di
cartone pressato. Ma non so, magari le vostre scarpe
potevano essere diverse.
No, assolutamente, noi avevamo scarpe di cuoio, con la suola di cuoio, almeno
le nostre, quelle che indossavo io avevano le suole
di cuoio come quelle degli altri soldati.
Un artigliere del centoventesimo, Enrico Betti, mi ha confermato nell'intervista che queste scarpe
avevano una suola come le ho descritto, cioè di una specie di cartone
pressato e chiodato che con l'acqua, e con le continue sollecitazioni,
perdeva la sua ermeticità e funzionalità.
No! Noi avevamo scarpe buone e poi quelli dell'artiglieria avevano un
equipaggiamento migliore del nostro. Loro camminavano
poco a piedi perché andavano sui camion mentre noi camminavamo tanto. Loro
erano a 5, 6 chilometri di distanza dal fronte
mentre noi eravamo a ridosso. La loro posizione indietreggiata permetteva loro di muoversi più liberamente, quindi
rispetto a noi avevano più libertà e possibilità di potersi procacciare del
cibo tra le isbe. Le nostre scarpe erano chiodate. In una recente intervista
al figlio della medaglia d'oro Giorgio Iannicelli - caduto in combattimento
aereo nel dicembre del 1941 contro 15 apparecchi
russi - alla quale partecipai anche io,
viene fuori la sua testimonianza diretta a riguardo della conservazione delle
scarpe. Lui racconta di aver assistito alla riesumazione delle salme nel
cimitero di Yussowo, presso Stalino,
ed ha potuto constatare che le scarpe in dotazione
ai soldati del Csir deceduti, dopo 60 anni erano
ancora in buone condizioni.
Noi oltretutto assistemmo a quel combattimento che coinvolse Giorgio
Iannicelli a fine dicembre del 1941. Quando i russi fecero l'offensiva nella
notte del 24, lui affrontò da solo una quindicina di
aerei da caccia russi ma fu abbattuto. Il figlio si era prodigato per poter recuperare le spoglie e si recò a Stalino, dove c'era questo cimitero e dove era sepolto il
padre. Dal momento che avevano fatto un palazzo, la
prima fila dei morti li hanno dovuti prelevare e li hanno sposati nel loro
cimitero. Ogni soldato aveva la propria cassa e la propria bottiglia ecc. ecc.
Mi spieghi della bottiglia.
Nella bottiglia il cappellano ci lasciava il nome e il cognome e le varie
annotazioni sul caduto che venivano sigillate con la
cera all'interno della bottiglia e messa accanto al caduto.
E il piastrino?
Il piastrino rimaneva. Ma io volevo sfatare la faccenda della
scarpe che erano di cuoio. Logicamente però, dopo tante ore costretti a stare
nella neve, per via del fatto che i russi non ci permettevano di alzare la testa,
potevano bagnarsi. Bisogna considerare che non eravamo
mimetizzati nella neve da tute bianche ma eravamo piuttosto visibili
tra la coltre bianca, eravamo un faciole bersaglio.
Il nostrogenerale Ugo De Carolis fu ucciso
da lontano proprio perché il grigioverde era piuttosto visibile, per
vedere la situazione si sporse un poco e fu preso in pieno. Il colonnello
Taby, per andarlo a prendere, ci rimase anche lui, gli hanno dedicato una
strada a Roma. In quel caso lo sotterrai proprio io, il colonnello. Ho
conosciuto il cognato che è un generale di corpo d'armata e che è il
presidente dell'ordine sovrano di Malta. Quando lo seppe
fu colpito da questo fatto, ci saremmo dovuti incontrare ma poi non se ne
fece nulla, sono passati tanti anni ormai. Quindi dicevamo, il figlio di
Iannicelli, che ha assistito alla riesumazione di suo padre, ha potuto constatare che le scarpe erano ancora in buono stato dopo
tutti quegli anni.
Ma è possibile che ci fossero scarpe
differenti nei differenti reggimenti?
No, le scarpe erano uguali per tutti. No, assolutamente no!
Per il resto?
Per il resto avevamo il cappotto di pelliccia.
Sufficienti per le temperature di quel tipo?
Certo, a 52 gradi sottozero nel 6 gennaio del '42
eravamo equipaggiati bene. I tedeschi furono fregati dal "generale
inverno" rispetto a noi.
Come mai dice questo? Addirittura i tedeschi equipaggiati meno di noi?
Perché non erano equipaggiati come noi! Il Generale Messe, quando eravamo in
Romania, chiese all'intendenza di Roma, oltre ai camion per noi, anche di
rifornirci di valenki. gli
stivali che avevano i russi fatti di feltro pressato dove l'acqua non
passava. Noi non li avevamo i valenki. Ritornando a
ciò che le ha detto l'artigliere romano del 120°
posso affermare che ha detto un'inesattezza perché semmai erano i chiodi che
provocavano quella sensazione di bagnato ai piedi. L'acqua penetrava semmai
tra i chiodi che trasmetteva il freddo ai piedi, quindi non era da attribuire
unicamente alle suole delle scarpe questo fenomeno ma, principalmente, ai
chiodi.
Lei ha avuto congelamenti?
Sì, un congelamento di primo grado ma con un po' di neve strofinata sopra mi
è passato. Però quando io chiesi nuove scarpe al
furiere, al sergente maggiore, mi disse che ne consumavo troppe. Io gli dissi
“ma io cammino come cammini te”. Allora ne presi un paio di due numeri più
grossi. E lui mi chiese “perché ne prendi un paio con numeri più grossi?” e io gli dissi “perché qui siamo in Russia. Devo metterci i calzettoni di lana”. Quindi per poter far entrare i calzettoni dentro le scarpe avevo
bisogno di una numerazione maggiorata.
Pausa per visionare le fotografie e fotografare le medaglie
Mi racconti dell'avvicendamento.
Coloro i quali erano partiti il 17 luglio del 1941 non potevano sopportare un
altro inverno e le vicende dell'inverno trascorso tra il '41 e il '42 per
cui, lo stato maggiore dell'esercito, dato che erano
venuti fuori tubercolosi, nefriti, deperimenti eccetera e la truppa era
stanca, fu deciso il rimpatrio dei superstiti. Non dimentichiamo che avevamo sul groppone anche
i 2450 chilometri a piedi. Io ebbi oltretutto delle febbri dovute ai topi
che, nei camminamenti, si erano mangiati le unghie dei piedi, evidentemente
mi fece infezione. Ero inizialmente destinato al primo turno di rimpatrio ma
a seguito di queste febbri venni spostato all'ultimo
turno dei reduci della divisione Torino. Ho una fotografia scattata in
occasione di questa adunata prima della partenza
dove si vede il colonnello Santini insieme al maggiore Giammei che ci passano
in rassegna. Quando, a metà dicembre 1942, arrivammo in Italia, ci trovammo
nel campo contumaciale per 15 giorni. Impiegammo 15 giorni per tornare in Italia. All'andata impiegammo
solo 4 giorni dall'Italia alla Romania dal 17 al 21
luglio. La contumacia si svolse ad Osoppo, vicino Udine, venivamo da Tarvisio. Quando
arrivammo in Italia scesi e baciai terra. Tornato a Roma mi mandarono però in Sicilia nel 75° reggimento
fanteria. Io indossavo la spilla della divisione Torino.
Quindi la guerra non era finita per lei.
No, non è mai finita. Alla fine, il 10 luglio del '43, sbarcano gli inglesi.
Pausa, mi presenta la moglie, una madrina
di guerra...
Mia moglie è figlia di un maresciallo dei carabinieri medaglia
d'argento al valor militare sul Podgora, lei era una
madrina di guerra.
Mi racconti della sua esperienza come madrina di guerra.
Noi dovevamo tenere la corrispondenza con i militari. Io
ho cominciato a lavorare presto, a sedici anni. Avevo fatto
le tre medie di adesso, le commerciali. Quindi
cominciai a lavorare e poi andai al Cim, al palazzo di vetro in via XX settembre, ero all'ufficio legale, e avevo il ministero
della marina. C'era il nostro capo ufficio che era molto, molto così (a indicare che era fascista ndr.) e
ci obbligava ad avere la corrispondenza con i militari. Io avevo la
corrispondenza con un marinaio, dopo subentrò lui. Anche Riccardo conobbe
questo ragazzo, che poi non era proprio un ragazzo, era piuttosto grande ed
era in un sommergibile. Poi Riccardo, mio marito, tornò dalla Russia e venne
al Cim
dove mio suocero era impiegato all'ufficio legale. In quell'ufficio
eravamo 55 donne. Un salone lunghissimo pieno di scrivanie, c'era anche, mia sorella, le donne erano al
posto degli uomini. Il padre, quando lui venne a trovarlo in ufficio, ce lo presentò visto che ci raccontava sempre di suo
figlio in Russia, ci diceva sempre “sbrigatevi che ho mio figlio che sono sei
mesi che non ho notizie di lui dalla Russia”. Spesso portava la fotografia
del figlio e diceva “questo è Riccardo mio”, io guardavo la foto ma non mi importava di lui, non prestavo attenzione insomma.
Quando però venne a salutarci e lui arrivò alla scrivania mia io non c'ero, ero al bagno. Allora chiese di me alla
cugina.
Io vidi sta biondina e a forza di cantare “tu biondina capricciosa”
dissi a mia cugina “Marì, guarda io tra giorni
parto per la Sicilia. Dico, hai visto quella signorina lì?” e lei “sì,
perchè? ”, “ecco tu mi mandi una cartolina con tutte le firme ma quella sua
me la sottolinei” quella cartolina l'abbiamo ancora.
Da lì è cominciata la corrispondenza allora.
Sì, una serie di corrispondenza con il saluto al Duce
finale. Le cartoline finivano spesso con un saluto di quel genere.
D'altronde c'era il mito del Duce.
Era come un augurio che era ormai radicato e lo si
scriveva spontaneamente e senza pressioni o forzature. Prima si viveva bene,
non c'era tanto consumismo come oggi, si possedeva
solo un paio di scarpe ma si viveva bene. Mia sorella, che ebbe il tifo, ebbe
tutta l'assistenza persino i raggi ultravioletti per curarla.
Le colonie! Io
ho girato l'Italia con l'opera balilla, sono stato anche sulle Dolomiti.
E non bisognava essere figli di ragionieri piuttosto che di funzionari?
No, no. Macché.
Io dopo il Cim feci un concorso e venni qui
alla città universitaria e quindi stavamo insieme a tante ragazze, gli uomini
erano partiti, ce n'erano pochi. Il padre di questa mia amica era contrario
al fascismo e quando arrivava qualcuno lui aveva già
pronto il suo pacchetto dei vestiti per potersene andar via. Perché lo
prelevavano e lo portavano in questura. C'era questa paura che la gente
contraria potesse ribellarsi per cui li allontanavano. Ma
questo povero cristiano non faceva nulla. Ma
purtroppo c'erano quelle mentalità che certe volte arrivavano anche a questi
comportamenti.
Dipendeva dalle
persone.
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